Un’ora di novità alla Triennale di Milano con Rava, Herbert e Guidi

Scritto da il 28 Novembre 2016

Quella sera del 13 novembre il silenzio nella Triennale di Milano è stato interrotto da Enrico Rava, o meglio…dopo qualche tentativo. La sala era buia, le luci saggiamente gestite dalla regia illuminavano solo il trombettista, del quale si riconosceva l’indistinguibile chioma argentea. Si faceva fatica persino a distinguere i suoi robusti baffi. In quello spazio c’erano apparentemente solo lui e la sua trombetta che all’inizio faceva volutamente fatica a suonare, quasi come se si fosse dimenticato come si fa, oppure come se volesse riprovare cosa significa impugnare uno strumento e non sapere come maneggiarlo, come soffiarci dentro.

Ma questo è stato solo l’inizio, durato forse appena un minuto, un incipit dove qualcuno (e anche io mi aggiungo) ha sorriso nel vedere la scena; anche se effettivamente c’era qualcosa di diverso da una semplice scenetta teatrale, un sottofondo che all’inizio era difficile distinguere, ma poi passo dopo passo è stato chiaro che quei soffi a vuoto erano seguiti da una base ben studiata: era Matthew Herbert con le sue basi elettroniche. Ancora qualche secondo e poi quello che all’inizio sembrava sconnesso ha assunto una forma; una combinazione che è diventata sempre più convincente, secondo dopo secondo, soprattutto quando il “guru” Rava ha abbandonato la veste scenica di dilettante per imporsi sul palco come l’Enrico Rava che tutti gli appassionati di jazz conoscono. Ma quella sera al Teatro dell’Arte non c’erano solo loro due; sulla sinistra del palco ecco che le luci sfocate si fanno nitide sul pianoforte di Giovanni Guidi, un “apprendista stregone” per come lo descrive la stampa.

Lo spettacolo assume finalmente la sua forma più vera, tutte le sue tonalità più sincere; un assolo da una parte, una scala improvvisata su un pianoforte e basi elettroniche che si inseguono una dietro l’altra a suon di click. Anche se l’ho citato per ultimo, è stato proprio questo il fattore chiave dell’esibizione: il computer. Forse lo “strumento” meno romantico agli occhi degli spettatori, ma decisamente ciò che ha dato un senso al tutto. E’ più volte lo stesso Rava che ricorda nelle interviste come l’elettronica sia stata per lui una recente scoperta nella sua carriera, ma forse la più decisiva in quanto consacrata per ringiovanire il suo jazz, per dargli ancora un senso, per far sì che dalla sua tromba potesse fluire ancora un messaggio nuovo.

Per il trio, la serata non è stato il primo esperimento, anzi la collaborazione tra i tre è un matrimonio già più volte collaudato, e che ha serbato per gli spettatori milanesi di questo novembre da JazzMi una sessione di pura improvvisazione, della durata di poco più di un’ora. Più volte i riflettori sono stati puntati su Rava. Questa volta, tuttavia, la sua tromba non ha indirizzato al pubblico le sonorità tradizionali del jazz, né quelle più comuni né tantomeno le sue tinte romantiche. Sebbene abbia più volte ricordato quanto “My Funny Valentine” sia il suo brano prediletto, le sue ultime esibizioni non hanno nulla a che vedere con quelle sonorità, anzi il suo suono sembra essersi fatto paradossalmente freddo e duro, abbinandosi perfettamente con le basi di Herbert. Gioco centrale è stato assunto dalle luci. Pochi sono stati gli attimi in cui i tre artisti erano ripresi allo stesso tempo; anzi è stato quasi sempre un duetto che tendeva a fluire in un’esibizione solista. A tratti sembrava quasi che uno dei tre si fosse perso per chi sa quale angolo del teatro, invece no era lì coperto dalle ombre, dagli strumenti; ma sempre pronto a dire la sua.

Al termine dell’esibizione gli applausi non si risparmiano; anche se, ascoltando di sfuggita i commenti dei presenti in platea, non nascondo che lo spettacolo non sia stato masticabile per tutti. Trattandosi di un esperimento, di un tentativo di lanciare qualcosa di diverso, non è difficile che qualcuno sia perso nell’esibizione, cercando magari un richiamo di Miles Davis, di Chet Baker; ma sbagliando clamorosamente. Non è mai facile essere subito incisivi con un progetto innovativo o quanto meno con qualcosa ancora non provato da nessuno; e chi sa se un giorno potremo parlare del trio Rava-Herbert-Guidi come un’esperienza rivoluzionaria nel mondo nel jazz, chi può dire se questa nuova formula può essere la chiave vincente per dare linfa vitale a questo genere eterno. Chi sa se magari potrebbe essere proprio uno di noi il fortunato a raccontare tutto ciò.

Gianmario Calderini

 


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