Cosa ci rimane di Jeff Buckley

Scritto da il 16 Novembre 2016

Oggi è il 17 Novembre 2016.

Jeff Buckley avrebbe compiuto 50 anni, e probabilmente, se non fosse annegato i primi giorni di Giugno del 1997 lungo le rive del Wolf River dove si immerse canticchiando Whole Lotta Love dei Led Zeppelin perché aveva voglia di fare un bagno, potremmo oggi parlare di un vasto repertorio.

Capolavori, brani mediocri, sperimentali o quant’altro non lo sapremo mai, e ci dovremo per sempre accontentare delle undici tracce che compongono “Grace“, l’unico album in studio che pubblicò quando era in vita.

 

In origine, avrei voluto scrivere un articolo serioso e rigoroso, raccontando in modo distaccato e super partes l’arte di Jeff, ma dal momento che mi si è rotto il computer e sto scrivendo dal telefono mentre ascolto “Grace” penso che il tutto vada ripensato ma tant’è, ché i programmi lasciano sempre il tempo che trovano.

 

Mi sono chiesto spesso se la morte di Jeff Buckley non fosse stata architettata minuziosamente da un’entità suprema e forse vagamente affetta da fthònos theòn, che è quella cosa che dice Erodoto che le divinità a volte sono un po’ invidiose degli umani e si vendicano: morire dopo aver regalato al mondo un disco, a cui mai più in carriera avrebbe potuto avvicinarsi. Quasi come se egli fosse nato per mettere al mondo “Grace” e nient’altro, per arricchirci tutti con un’esperienza meta-musicale e poi basta (anche se riconosco che si tratta una teoria spiacevolmente fatalista).

Perché se è vero che la sua voce risplende di luce propria, come ha dimostrato nelle innumerevoli cover registrate – da Calling You di Jevetta Steele all’emozionante versione di I know it’s over dei The Smiths, passando per Bob Dylan -, i brani del suo unico album in studio raggiungono vette sublimi difficilmente superabili. 

 

Ad aprire la tracklist è Mojo Pin. In un’intervista in cui gli chiesero delucidazioni sul titolo, Jeff rispose che Mojo Pin è quella cosa che quando ti manca una persona con cui hai terminato una relazione ti metti a fare tutto quello che faceva per sentirti meglio: guardi i programmi che guardava, fumi le sigarette che fumava, ascolti la sua musica. E nelle note sussurrate, in un crescendo che esplode fino al grido “Black beauty, I love you so”, Jeff Buckley rivela al mondo già dal primo brano che sta succedendo qualcosa di mistico che va oltre l’ascolto di un disco uscito nello stesso periodo in cui Mariah Carey e gli Ace Of Base imperversavano impossessandosi del numero uno delle classifiche Billboard. Segue poi la title-track, Grace, in cui la voce tesse melodie divine, diventando nel finale uno strumento musicale. Se “Last Goodbye” ci riporta un po’ sulla terra, quasi come un intermezzo, l’atmosfera sublime riprende nel quarto brano, che è una cover: “Lilac Wine“, scritta da James Shelton ed interpretata per la prima volta da Hope Foye nel musical “Dance me a song” (e fin qua ben pochi si sarebbero accorti che era una cover) ma passata alla storia per la versione che ne fece Nina Simone, titano con cui confrontarsi rimane impresa sì ardua. Ancora una volta, le chitarre accompagnano la voce di Jeff sui gradini che pian piano conquistano il cielo, e “prova superata” è probabilmente troppo poco.

Il rock di So Real, quinto pezzo, prepara al tris devastante di centro album, in cui le impressioni che si tratti di qualcosa di raro e forse insuperabile iniziano a farsi sempre più concrete. Per prima la sua versione di Hallelujah, su cui spendere parole è quanto mai pletorico visto il contesto storico di recente morte di Leonard Cohen, così come a causa della suddetta contingenza storica affermare che la versione di Jeff Buckley è migliore potrebbe venir censurato per cui lo ometterò anche se è chiaro che lo penso ma andiamo avanti.

Segue Lover, You Should’Ve Come Over, in cui la voce di Jeff ancora una volta si sprigiona in melodia struggente, si dipinge canto puro e disperato, mentre si descrive come “too young to hold on, too old to just break free and run”, riassumendo con energia, concisione e tensione drammatica le paure di chi si ritrova a trent’anni senza sapere dove andare e che cosa fare. E qui di solito qualche lacrima inizia a scendere, perché la carica emotiva è forte e mica si scherza.

A chiudere il tris è la sussurrata Corpus Christi Carol, con cui si tira il fiato prima di buttarsi di nuovo nel rock con Eternal Life, e concludere il disco con Dream Brother e l’ultima track, Forget Her, in cui con una (in)consapevole Ringkomposition Jeff chiude il cerchio aperto col Mojo Pin dicendo che, a dimenticarla, non ce la fa mica. E ci si rende conto solo ora che, ancor più che la voce eterea di Jeff, il vero filo conduttore del disco è il tentativo di farsene una ragione quando proprio non se ne vuole, in tutte le circostanze della vita, che è forse banale e vagamente retorico ma se così appare è perché la mia sintesi non è sufficientemente precisa.

 

Grace uscì nel 1994. Jeff Buckey morì 3 anni dopo, mentre era alle prese con il secondo lavoro in studio, che uscirà postumo col titolo Sketches for my sweetheart, the drunk. Io non lo so cosa sarebbe successo se non fosse morto, ne parlavo anche prima, non lo so e con mia buona pace posso dire che non avrò mai modo di saperlo.

Quello che so è che, dopo un lavoro del genere, la morte sembra un rintocco che congela per sempre una pietra miliare della musica.

 

A cura di Filippo Colombo


Traccia corrente

Titolo

Artista