UNA PACIFICA CHIACCHIERATA

Scritto da il 18 Novembre 2019

Vorremmo iniziare con la più classica delle domande: chi è Pacifico? E da dove viene questo soprannome?

P: Ah, partiamo proprio da lì (ride). Pacifico è il nome d’arte di Gino De Crescenzo, che poi in realtà Gino sta per Luigi e quindi un nome preciso non è mai stato pronunciato. Quando sei piccolo e, soprattutto, se sei meridionale, tra gli abbreviativi di Luigi c’è tutta una scelta tra Gigi e Gino e alla fine sono uscito come Gino. Io ho cominciato molto tardi: ho fatto sempre il musicista e ho sempre suonato, però come artista mi sono svegliato quasi a 40 anni. Di botto ho cominciato a scrivere testi, cosa che non avevo mai fatto prima, ed ho cercato uno pseudonimo perché “L. De Crescenzo” veniva scambiato per Luciano De Crescenzo, che è mancato anche da poco; inoltre conoscevo già dei discografici, avevo già un’età e non mi avrebbero preso sul serio. Quindi ho fatto dei provini a nome “Pacifico” ed avendo la voce all’epoca molto giovanile e da ragazzino, ciò suscitava interesse nei miei lavori, venendosi a creare una sorta di mio alter ego. Inoltre l’ho scelto perché sono così all’esterno, poi dentro è un disastro (tutti ridono).

E infatti la prossima domanda verte proprio su questo: sul fatto che tu sei Pacifico di nome e di fatto, anche dal punto di vista dell’interazione con gli altri artisti; infatti vanti una serie di collaborazioni molto importanti lungo la tua carriera.

P: Sì, ma non so dirti quanto questo dipenda dal carattere. Nel senso che io, nel mio, ho questo atteggiamento, però spesso le persone più silenziose che appaiono più riflessive fanno più fatica a far trasparire quelle che sono le proprie difficoltà, le proprie volontà, inibizioni o tormenti…

Ad esempio a me ha stupito nella tua discografia l’album del 2012 “Una voce non basta”, che è praticamente composto da 14 brani che sono 14 duetti.

P: Quello è stato un po’ come il tour Settimana Pacifica che farò adesso: ogni tanto io faccio il punto fra il mio essere artista e il mio essere autore. Queste cose sono diventate tutt’e due importanti e cerco di seguirle tutt’e due. Quando faccio tanto l’artista mi manca stare lì vicino ad un altro a fare il gregario, perché mi toglie parte di me stesso. Stare davanti gli altri artisti è più quasi un lavoro da ritrattista, come se mettessi la musica su un film: hai le immagini e devi cercare di capire come farle incastrare tra loro. Quando invece sto tanto con gli artisti non vedo l’ora di tornare a scrivere per me, perché ho anche le mie esigenze artistiche. Quindi alla fine per quel disco lì in particolare facevo fatica a scrivere per me, però poi, appena ho pensato agli artisti che amavo, sono uscite le canzoni, perché quello è proprio un richiamo che il Pacifico autore ha, dico a me stesso “Come sarebbe bello se tale artista cantasse questo”.

Quindi sei un cantautore che ragiona come un paroliere.

P: Sì, è strana questa cosa perché io per anni sono sempre stato solo un musicista: sono un chitarrista, un pianista, tutto sempre da autodidatta, ad orecchio. Mi sono sempre incentrato molto sulla musica e, infatti, io non ho la formazione, per cui ho imparato i testi, non so a memoria neanche i miei, infatti adesso ai concerti è un disastro (tutti ridono). Anche se, come tutti, li conosco, non mi sono formato sui testi di De André, di De Gregori, in realtà con lui un po’ sì, infatti mi fa davvero piacere averlo ospite alla Settimana Pacifica. Non mi sono messo lì a dire “Accidenti, guarda cosa ha detto”, io non ho scritto dal tema di maturità a 18 anni fino ai 38 anni. Inoltre, non c’erano tutti i telefonini, i messaggi da scrivere: non ho scritto nulla per 20 anni, quindi è stato un silenzio. Poi, di botto, ho cominciato a scrivere ed è stata una rivelazione anche per me e adesso, ogni giorno, ho parole, parole, parole. Infatti il ricordo preciso che ho è che quando ho cominciato e ho detto “Ora provo io”, da lì è stato come liberarsi di un dolore, qualcosa di irresistibile, di trattenuto da tanti anni. Però non ci avevo mai pensato prima di quel momento.

Un’altra domanda sulla scrittura: tu hai scritto “A casa” in “Bastasse il cielo”, in cui vi è uno spaccato di vita quotidiana tra una madre e una figlia. Possiamo quindi dire che fare musica significa raccontare storie, raccontare vite. Hai scritto anche per il teatro: quanto c’è di diverso nel raccontare tramite la musica e tramite la prosa?

P: Sì, è differente. Per quel pezzo in particolare, dato che io vivo a Parigi da tanti anni e lì ho un ragazzino che sta crescendo, chiaramente nel tragitto che faccio da casa allo studio c’è questa grande presenza di senzatetto, c’è un po’ in tutte le grandi metropoli, ma a Parigi in particolare la figura del clochard è sempre vista in maniera romantica, che poi in realtà sono individui che provano e vivono delle cose terribili. Vedevo queste due persone, una madre ed una figlia, che puntualmente ogni mattina rovistavano per vedere cosa andavano a reperire, c’era proprio una comunità di persone che si muoveva assieme e si radunava di fronte ai supermercati perché gli davano le cose in scadenza. Questo è uno degli stimoli per scrivere. Devo dire che, ad esempio, saltando dalla canzone d’autore al pop, spesso nel pop scrivi più una cosa vaga, un “Mi manchi”; c’è sempre una distanza nel tempo e nello spazio, “E’ successo”, “Chissà dove sei”, c’è questa cosa un po’ più vaga sulla malinconia che tutti abbiamo dentro a qualsiasi età e che il pop esprime bene, oppure l’entusiasmo di un dato momento. Invece la canzone d’autore si avvicina ed è un po’ il punto d’incontro tra la prosa e la musica: tanto è vero che lo vedi che ci sono grandi cantautori, lo capisci che hanno scritto prima fogli di parole e poi ci hanno appoggiato sopra una musica, perché la musica magari è più “a servizio”. Ad esempio, io sto cercando di migliorare, di non scrivere troppo testo e cercare di scrivere più testo nella prosa; se sto scrivendo così tanto allora meglio se mi metto a provare a scrivere un’altra cosa, perché vedo che ho bisogno di spazio però poi magari la canzone è schiacciata sotto il testo, allora cerco di portare avanti anche la melodia, perché poi, come dicevo all’inizio, essendo io nato come musicista quello che sentivo erano i Beatles e Battisti, quindi per me è centrale la melodia.

Parlando invece del tour Settimana Pacifica. Prima di tutto, ti piace la settimana enigmistica? (tutti ridono)

P: Ma ancora la conoscete? Si fa ancora? (annuiscono). Ah bene, si fa. Io vengo da una famiglia proletaria, non c’erano libri in casa a parte le enciclopedie che allora si usavano; l’unico tomo su cui si spargeva veramente il sudore della fronte era la settimana enigmistica. Di Bartezzaghi mi ricordo proprio uno sforzo di creatività delle parole eccezionale. Era proprio uno strumento aggregatore per la mia famiglia perché io anche, crescendo, la continuavo a fare.

 

Infatti è proprio un format, nella copertina gli ospiti sono gli indovinelli, tanto è vero che c’è l’ospite segreto come enigma. Inoltre c’è la metafora del paroliere, perché per un cruciverba trovi le parole giuste così come un autore deve trovare le parole giuste.

P: Sì, infatti stiamo cercando di vedere se riusciamo a mettere in apertura un quarto d’ora con un grande enigmista.

 

Un’ultima domanda, che guarda al panorama musicale odierno. Data la tua attività di autore e paroliere, c’è qualche autore giovane che hai adocchiato e che ti ha affascinato?

P: Io in realtà ascolto molto anche i ragazzi del rap e della trap. Sono molto attento ai testi. Mi incuriosisce, ovviamente, tutto il mondo sonoro perché essendo, come dicevo, un musicista, mi approccio in realtà alle opere con la musica e non con le parole. Però ho, come tutti, un grande istinto per capire se un testo è scritto bene, poi il mio è esercitato. Però c’è una cosa che ho visto negli anni: io da giovane ero un fenomenale chitarrista da spiaggia, sapevo tutte le canzoni ad orecchio e vedevo che la gente sapeva le canzoni scritte meglio. L’armonia nella scrittura ti permetteva di impararle a memoria, ad esempio il disco di Mahmood, quando è uscito dopo Sanremo, mi era piaciuto molto, così come capisco benissimo che Calcutta, oltre alla scrittura, ha qualcosa nella voce che è una tradizione, non solo italiana, che sia Battisti sia Rino Gaetano possedevano, una voce un po’ disperata e liberatoria di cui tutti abbiamo bisogno. I cantanti… è bellissimo ascoltarli, prendiamo De Gregori. Però altri li canti proprio dalla platea ad un volume pazzesco ed è bellissimo, quindi in realtà ho gli occhi aperti. Mi è piaciuto molto anche l’ultimo pezzo di Brunori, che mi sembra sia arrivato ad una sintesi importante, quindi nel panorama c’è un cataclisma, un grande ricambio ed una spinta molto forte. Questa non la chiamerei crisi del mercato, perché il mercato è proprio cambiato, quindi bisogna ragionare in modi diversi. Ma lo si vede anche dai numeri dal vivo: certi ragazzi fanno numeri pazzeschi, per cui vuol dire che la calamita è sempre in azione.

Elena Martina

Emanuele Mantia


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