Due storie, due mondi: a Bookcity, J-Ax e Paolo Ruffini si raccontano e raccontano le generazioni.

Scritto da il 20 Novembre 2016

Tra un evento e l’altro di Bookcity Milano, abbiamo deciso di raccontarvi non solo cosa gli ospiti hanno raccontato a noi, ma anche come due personaggi dello show business, apparentemente molto diversi, abbiano in realtà un fil rouge di “disappunto generazionale” (definiamolo così!).

In una sala strapiena di fans e curiosi al BASE Milano, J-Ax ha presentato la sua autobiografia Imperfetta forma. AutobiografiAx, edita da Mondadori e boom di vendite in pochi giorni! La definisce “storia di uno sfigato di successo”, e come una autobiografia musicale e di costume, di cadute e di risalite e di sassolini nella scarpa. Il libro ripercorre il panorama italiano degli anni 90, quella generazione, la sete di riscatto dell’autore, la sua strada da sfigato a musicista affermato e la sua fuga dalla periferia e da tutti i guai e le sofferenze che lì ha incontrato, che tuttavia non gli impedisce di dire: “puoi allontanarti dalla periferia ma non puoi allontanare la periferia da te”.

J-Ax spiega di aver deciso di raccontarsi perché finalmente ha il pubblico che da sempre sognava; una platea che non si può definire perché eterogenea e non categorizzata. È a questa platea che si confessa, parlando senza peli sulla lingua degli atti di bullismo subìti, delle difficoltà in famiglia, del tunnel delle dipendenza in cui era caduto. Ci tiene, però, ad appellarsi anche ai nuovi giovani e soprattutto ai molti bambini che in occasione di questo evento erano seduti proprio sotto il palco che lo ospitava, esortandoli a non comportarsi mai come quelle persona che lui ha incontrato nella sua strada. Pentendosi di alcuni errori fatti, continua dicendo ai suoi più piccoli interlocutori: “sballatevi solo di cose naturali: amore e allegria”. 

Certo è che, dalle sue parole, si deduce che il suo è davvero stato un percorso duro e coraggioso, del quale di certo non si fregia, e tuttavia ne va fiero; non è facile, dice, per un ragazzino degli anni 2000 avere una forza tale di riscatto. Gli attacchi, oggi, sono ancora più forti, i social sono delle armi, sono in pochi quelli che riescono a fare qualcosa da soli, senza idolatrare all’eccesso qualcuno, senza ispirarsi ad un influencer. Gli influencer prima non esistevano, sono una invenzione di oggi. Tutti i ragazzini oggi vogliono per forza assomigliare a qualcuno. E noi non possiamo che essere d’accordo con queste parole dello sfigato più famoso d’Italia e siamo anche d’accordo sulla più frequente debolezza di un ragazzino degli anni 2000.

Anche Paolo Ruffini, che proprio sulla nostalgia degli anni 90 ha scritto il libro Telefona quando arrivi (Sperling & Kupfer), presentato in Triennale, sottolinea una marcata differenza generazionale. Spiegare in poche righe di quante cose parli il suo libro è un’impresa colossale e, anche per evitare di svelarvi tutto, ci limitiamo a dirvi che, con un tono scanzonato e sensibile, fa una carrellata in macrotemi di tutto ciò che ha reso indimenticabili gli anni 90; abitudini, oggetti, tradizioni nelle quali, di sicuro, vi ritroverete spesso e direte “ma è passato così tanto tempo?!”.

In questa chiacchierata, Ruffini spiega che ciò che lo allarma di più circa l’attuale generazione è l’attaccamento social, un social che porta all’asocial; puntualizza di non essere un conservatore e di non mettere in dubbio l’utilità dei social, tuttavia ha paura del loro potere, un potere che lascia spazio a molti interrogativi, un potere che crea quella che definisce “dittatura della gente” in cui tutti possono proferire la loro opinione – il più delle volte ingiustificatamente critica – che si pone al livello pari di quella di una giornalista o di un blogger. E non tutti, soprattutto i giovani, capiscono quando e come la critica può essere costruttiva utile nella loro crescita; spesso è gratuita, e ferisce.

A cura di Marco Calabrò


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