Recensione di “A moon shaped pool” dei Radiohead

Scritto da il 17 Giugno 2016

L’abbiamo aspettato a lungo, li abbiamo aspettati a lungo. Il nuovo album dei Radiohead, “A moon shaped pool”, è uscito lo scorso 8 maggio sotto la XL Recordings e oggi, 17 giugno, esce anche in forma fisica nei negozi di dischi di tutto il mondo.

Tanto si è già detto a riguardo. Accompagnato dalla scomparsa di Yorke e compagni da tutti i social networks poco prima dell’uscita del singolo “Burn The Witch”, l’album è stato l’equivalente di un boato nel mondo della musica. Ha smosso critici, giornali, riviste, amanti del gruppo e non. Ha smosso anche noi, già dal primo ascolto.

 

A moon shaped pool” colpisce, genera e alimenta dubbi, stupisce, smuove e commuove. E ogni ascolto ne favorisce un altro, e poi un altro, e un altro ancora, nel forte sospetto che sia necessario addentrarsi ogni volta sempre più a fondo nella tana del Bianconiglio per coglierne l’essenza, quella vera.

E se è vero che non è un album estremamente complesso, è anche vero che esso è cupo, a tratti onirico e a tratti viscerale, nato da stimoli e influenze molteplici ed estremamente variegate.

 

Il viaggio inizia proprio con Burn The Witch, che – complici forse anche le immagini del videoclip impresse nella mente, uno stop-motion di pinneriana memoria assolato e conturbante – attira fin da subito l’attenzione, incalza e inquieta. L’arrangiamento è spettacolare e dà già l’idea di ciò che faranno gli archi per tutto il resto del disco, il finale è caotico ed esplosivo.

Daydreaming si presenta come uno dei brani più belli di questo album, è un’amara riflessione dipinta su sfondo onirico, accompagnata da grida soffocate che fanno da contorno alla malinconica e dolorante voce di Yorke.

Decks Dark richiama moltissimo i Massive Attack, è per molti versi “classica” e presenta un inserimento di chitarra nel finale interessante e una sezione centrale quasi trasognata.

Desert Island Disk, invece, per merito di un certo arrangiamento ritmico e armonico, riporta alla memoria i Led Zeppelin, quelli più esoterici (“The Battle of Evermore” o “Bron-Yr-Aur”, per intenderci), e ci delizia con una sovrapposizione azzeccatissima tra voce e chitarra.

Ful Stop è elettronica hardcore, si apre in maniera straordinaria dopo un inizio ovattato, è una fuga disperata (nonostante il titolo suggerisca altrimenti) stimolata dalla chitarra e dall’intensa voce di Thom. Decisamente uno dei brani migliori del disco.

Glass Eyes è un interludio dall’atmosfera cupa e congelata, in cui trova spazio anche Debussy, una cathédrale engloutie in cui si racchiude il carattere orchestrale dell’intero disco.

Identikit, dopo un inizio scarno e spoglio, ci sottopone un ritornello haunting, seguito da un’apertura di synth e voce spaziale. Curiosità: è l’unico brano contenente un assolo di chitarra ben definito.

The Numbers emerge dal disordine e dal rumore e ci fa ritorno alla chiusura. L’influenza dei Led Zeppelin di “Kashmir” si sente ed è forte: l’inserimento degli archi nella seconda parte è splendidamente invadente.

Present Tense è per certi versi distante dal resto dell’album: esotica, struggente, dolcissima in maniera sorprendente.

In Tinker Tailor […] la voce sembra quasi essere distante, la musica è fredda fino a quando gli archi non prendono il sopravvento, in uno dei moltissimi esempi di arrangiamento magistrale attuato da Greenwood, di cui è costellato l’intero album.

True Love Waits è la chiusura perfetta di un grande album. Dopo svariati tentativi falliti di registrazione in studio di questa ballata celeberrima, l’accoppiata voce-pianoforte si impone come la migliore soluzione per questo capolavoro. Il testo è di una bellezza incalcolabile, l’arrangiamento è meraviglioso, il brano una perla di rara bellezza.

 

“A moon shaped pool” è un album che resta con l’interlocutore a lungo dopo l’ascolto, lo segna. Non finisce mai veramente, apre molte parentesi che poi non chiude, fa supporre che sia più di quello che è. Noi l’abbiamo amato e ci ha colpiti nel profondo.

 

Voto: 8.7/10

 

A cura di Luca Stanus Ghib e Antonio D’Amato


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