Bocconi D’Inchiostro incontra Michela Murgia

Scritto da il 3 Dicembre 2017

L’incontro si è svolto non con lo stile solito delle conferenze ma è stato impostato dai ragazzi come un dialogo tra loro e l’autrice, che, partendo dalle loro domande ha raccontato e rivissuto il suo percorso di autrice partendo dal suo primissimo romanzo: Il mondo deve sapere”.

 Domanda 1: Nel periodo in cui scrisse il suo primo libro lavorava nel call center di una azienda che produce aspirapolveri, come, pur subendo un’esperienza così orrida e grottesca, è riuscita a darne un’immagine assolutamente lucida, ironica e così distaccata da quello che ha vissuto?

Michela Murgia: Non confondere mai quello che leggi con quello che è, nel senso che la narrazione è una mediazione del reale e per me raccontare non è un atto naturale, infatti io non avevo scritto niente in tutta la mia vita, neanche un diario segreto, prima di trovarmi in quella situazione e aprirmi un blog. Perché per me l’organizzazione della narrazione e del reale è l’atto estremo dell’impotenza, quando non posso fare nulla lo racconto. In quel contesto non avevo via d’uscita anche dal punto di vista fisico perché il lavoro che facevamo si svolgeva in uno scantinato con postazioni separate da forme di compensato e in cui ogni persona parlava contro un muro, e davanti al muro c’erano da un lato la telefonata stampata che dovevi ripetere standard e dall’altra gli obiettivi motivazionali che ti eri fissata. Guardare il muro è una metafora forte, quando io ho iniziato a scrivere pensavo di star raccontando la mia situazione non la condizione di una generazione intera. Così quando inizio a scrivere sul blog in anonimo per i miei amici nell’arco di un mese e mezzo quel blog totalizza 7000 contatti al giorno e mi rendo conto che quello che sto raccontando non riguarda solo il mio piccolissimo mondo di 16 persone che a turno lavoravano in quello scantinato. Quindi scrivere ha costretto me a prendere coscienza della stessa situazione che stavo raccontando. La lucidità è cresciuta con il tempo. Per me l’ironia è l’arma in questi casi, è una delle voci della civiltà ma anche una delle voci della rabbia, infatti non va mai confusa con il divertimento, non è una risata l’ironia, in tutto il mondo animale quando una bestia ti mostra i denti è perché è incazzata, perché si sta difendendo e ti sta facendo vedere di quello che è capace. Raccontare le cose, sbeffeggiandole, disumanizzandole e dando loro altri nomi era un modo per governarle. Quando è uscito il libro la mia sorpresa è stato quello di vederlo leggere con un testo di denuncia sul precariato ma non sono contraria al precariato nei call center, anzi, non vedo posto peggiore dove poter passare il resto della tua vita. Allo stesso tempo non mi sono riconosciuta neanche nella lettura critica perché non era un libro di denuncia sul precariato, in quel libro c’è una tematica che poi affronterò in tutti gli altri miei libri: a me interessa capire le dinamiche di potere, tutte le volte in cui entro in una stanza mi chiedo quale sia la catena di comando, chi è che detta le regole? Chi ha il potere di cambiarle? Che tipo di derive sono possibili? In ogni catena di comando posso essercene, in alcune diventano abusi in altre restano latenti. La mia ossessione sono i rapporti di potere. Noi siamo abituati ad investigare i poteri di sistema ma di meno ci interroghiamo su poteri inter relazionali soprattutto quelli che si basano sulla presunzione affettiva, anche se l’affetto è vero non è detto che il potere non agisca, anzi laddove c’è l’affetto il potere ha un’arma in più. In questo libro mi interessava capire come mai persone libere di andarsene in qualunque momento accettavano di stare lì per una paga assolutamente irrisoria (che non giustificava il loro restare) e accettavano di subire delle forme di dominio linguistico, economico, emotivo che normalmente uno non accetterebbe mai neanche nelle sue relazioni amicali. Dopo un mese e mezzo ho ricevuto contatto di un editore che ho rifiutato inizialmente dicendo che quello non era un libro ma un pezzo della mia vita e se ve lo do mi sottopongo a ritorsioni. Pensavo volessero un libro per raccontare un fenomeno ma che avrebbero usato la mia vita per farlo e quindi per un mese gli dico di no, anche perché avevo paura di denunce da parte dell’azienda che l’aveva assunta. Dopo un po’ il mio editore firmò una dichiarazione di manleva in cui dichiarava che se fossi stata denunciata si sarebbe assunto il carico delle spese legali anche nel caso in cui nel processo fossi stata condannata, per contro io dichiarai che quello che avevo raccontato era la verità. Andai così in libreria. Non pensavo che il mio libro avrebbe avuto un riverbero speciale, nell’arco di 6 mesi vende 40 mila copie. Einaudi ha poi comprato i diritti. La seconda edizione uscita proprio con Einaudi mi è anche più cara perché ho scritto una prefazione che dà la chiave di lettura del libro.

 

Domanda: Abbiamo notato come al centro dei suoi libri ci siano le relazioni e i rapporti tra le persone, il rapporto di potere di cui vorrei parlare ora è quello che si instaura tra l’insegnante e l’allievo: leggendo “Chirù” vediamo che ci sono due rapporti educativi uno che si instaura tra Chirù e Eleonora, che è un’attrice affermata nel mondo del teatro mentre Chirù è un giovane violinista che vuole apprendere e vuole sapere come lei è entrata in quel mondo. Dall’altra parte abbiamo la figura di Eleonora con il suo maestro Fabrizio che cresce all’interno della narrazione e prende colori diversi fino al raggiungimento dell’unione. Quale valore ha l’attrazione nel rapporto educativo, e soprattutto l’attrazione intellettuale può essere vista come fuoco della conoscenza dell’anima?

Michela Murgia: la conoscenza è un luogo erotico, tu giustamente sottolinei il momento in cui Eleonora e Fabrizio vanno a letto insieme, l’andare a letto insieme rimanda al desiderio, il desiderio tra due persone è un canale di linguaggio attraverso il quale si possono dire e imparare molte cose dell’altro, tuttavia questo non è paragonabile al potere che ti dà educare un’altra persona nel suo desiderio, cioè non è importante cosa desidera ma è molto più importante che in un percorso di formazione tu possa insegnare ad una persona che forma dare al suo desiderio. Alla fine che desidera dipenderà anche da quello che tu gli hai insegnato e questo è un momento onnipotente. Pensate all’educazione al bello: insegnare a qualcuno come guardare le cose, come decidere quale è il confine tra il piacevole e lo spiacevole. È vero che formare lo sguardo di una persona sul mondo è molto più importante che essere la cosa guardata da quella persona. I genitori questa cosa la sperimentano di continuo, quando ti nascono i figli hai già un’età in cui hai vissuto abbastanza e quando nascono loro lo stesso mondo che hai già visto tu lo devi riguardare attraverso i loro occhi. Avere a che fare con una persona in fase di apprendimento ti pulisce lo sguardo ed è come se tu aprissi gli occhi al mondo per la prima volta. La persona che ti chiede “insegnami” ha un potere su di te perché ti obbliga a riguardare quello che hai già visto, tu hai un potere su di lui intanto perché hai la possibilità se quella persona si fida, di dare forma al suo guardare, in questo non c’è sesso che possa sostenere la lotta con questa prospettiva. Dei maestri e delle maestre non ci si dimentica mai, perché è un’esperienza più formante e anche deformante reciproca. Ho avuto la fortuna di nascere in Sardegna dove esiste un istituto sociale informale che si chiama “Filiazione dell’anima” e fino agli anni 80 che quando di figli ce ne erano di più poteva capitare che questo meccanismo funzionasse ancora e per me è scattato… allora il meccanismo funziona così: dimenticatevi l’adozione e l’affido che sono due strumenti del nostro diritto formale che prevedono l’inabilità temporanea o permanente di un familiare di occuparsi del ragazzo o della ragazzo, la filiazione d’anima non ha il dramma all’origine perché non ha l’insufficienza come requisito fondamentale, potresti non avere nessun problema nella tua famiglia e nonostante questo sviluppare un’affezione che scatena in un altro adulto/coppia di adulti una elezione nei tuoi confronti e a me questa cosa è successa quando avevo 16 anni (di solito avviene prima). Ci sono due adulti che decidono che sarebbe stato molto bello per loro se tu fossi stata loro figlia, lì i genitori biologici e logici iniziano a parlarne e se si crea il patto, ed è come chiedere la mano. È molto più facile farlo che dirlo. Mia madre ad un certo punto ha capito che i molti modi in cui io potevo essere figlia non stavano tutti dentro ai pure molti modi in cui lei poteva essere mia madre, e c’era invece un’altra donna che aveva questo potenziale. Mia madre con un gesto di generosità e intelligenza ha deciso di creare uno spazio per l’altra figura genitoriale e suo marito. Io a 18 anni sono diventata un’altra figlia, non ho cambiato famiglia perché la mia famiglia rimane sempre quella, non sono stata sottratta ma sono stata moltiplicata, non sono stata figlia due volte ma sono stata due figlie diverse. Io sono due persone diverse. A volte la mia madre biologica mi guarda e mi dice: io non avrei mai pensato che tu saresti diventata questo, mentre la seconda madre invece l’aveva pensato. La seconda ha visto in me un potenziale che i miei genitori biologici non vedevano e se sono quella che sono lo devo a entrambe sicuramente. La seconda esperienza mi ha però concesso un respiro d’azione che la prima non avrebbe mai potuto. L’ho fatta in un contesto in cui questa cosa era normalizzata ma vi assicuro che se voi la fate in qualunque luogo non sarebbe accettato, io ero in una comunità che accettava questo patto informale. Nel mio caso specifico cambiai addirittura stato di famiglia. È difficile da spiegare perché verrebbe da pensare che quando succede una cosa del genere uno parta da una situazione di enorme sfiga familiare. Spesso quando lo racconto le persone mi guardano con tenerezza pensando: “chissà che infanzia sventurata ha avuto questa ragazza!”, in realtà no. Mio marito ha avuto parecchie difficoltà a capire il perché avesse due suocere. Ho deciso per questo di non avere bambini ma di avere 5 figli di altri, quindi nella vita ho ripetuto quel gioco 5 volte. 4 con maschi e 1 con una ragazza che ho accettato di prendere cinque mesi fa. È un’esperienza eccezionale: un’altra famiglia ti si avvicina e ti dice se senti anche tu questa cosa di aggiungerti. Nel caso della mia figlia di adesso starà con me per un anno che è l’anno sabbatico tra il diploma e il momento in cui deciderà, faccio con lei  un anno di orientamento e lei poi deciderà con chi stare.

 

Domanda: Anche il viaggio può essere un maestro di vita? Un ragazzo nel viaggio può ritrovare se stesso e nello stesso tempo non avendo poi bisogno quando torna di avere consiglio perché torna cambiato?

Michela Murgia: questo è un topos letterario proprio degli isolani perché gli isolani attribuiscono al viaggio un valore diverso rispetto a quello che gli attribuiscono quelli che abitano sulla cosiddetta ”terraferma”. Nascere in un’isola vuol dire nasce con una sorte di muscolo interiore costantemente allenato al salto anche quando il salto non lo fai mai la questione dell’aldilà del mare è sempre presente. Andartene anche solo una volta determina l’ingresso in una condizione di straniamento che non si risolve più perché non sei più solo di quel posto e allo stesso tempo, altrove, sei sempre di quel posto. Ti da’ uno statuto di apolide lo spostamento dall’isola verso qualunque altro luogo, fuori vieni sempre da lì e quando torni vieni contaminato dall’esterno. Quando ci si laurea in Sardegna la prima cosa che ti chiedono tutti non è “Adesso dove lavori?”, ma è “Vai o resti?”, domanda che chi si laurea a Padova tendenzialmente non se la sente dire. Idea del viaggio è idea di cambiamento ma idea del viaggio da un’isola vuol dire qualcosa di più. Questo ha anche a che fare con concetto di confine. Il confine tra Lombardia ed Emilia non si vedono se non dalla cartina, ma se non ci fosse il cartello in strada che ti avvisa non lo sapresti. In Sardegna i confini si vedono tutti, è una gonna senza orlo, le coste sono uno strappo, dal punto di vista relazionale le isole non sono sorelle di nessuno, non hanno una famiglia, sono veramente uno stato a se’. Spostarsi da quella convinzione è un viaggio mentale e non solo fisico. C’è gente che non si sposta mai dalla Sardegna ma desidera per tutta la vita di essere altrove perché quando nasci e sei vittima di una narrazione periferica hai l’impressione che tutto quanto di interessante stia succedendo al mondo sta succedendo da un’altra parte, quindi hai sempre la sensazione di perderti la storia se non te ne vai mai. D’altro canto poi quando te ne vai ti accorgi che questo non è così vero, anzi io tutte le cose importanti che ho fatto le ho fatte grazie alla Sardegna e non andandomene dalla Sardegna o nonostante la Sardegna. La mia scelta è sempre stata di stare lì quanto più possibile. Diffidate di chi dice che dobbiamo difendere l’identità, dobbiamo sporcarla il più possibile per farla resistere, mentre l’appartenenza è sentirsi responsabili di un destino, di un qualcosa che ti supera, ed è l’unica cosa che possiamo scegliere. Alla fine ius soli o ius sanguinis sono entrambi forme che nominano il caso, non puoi scegliere né da chi nasci né dove nasci, però nella vita puoi scegliere a chi appartenere e di quale destino sentirti partecipe. Io detesto la parola identità perché ha la stessa radice di identico, significa che mi predispongo a riconoscere soltanto chi ha qualcosa in comune con me ma non è integrazione, questa è assimilazione, riconoscimento del simile. Io vengo da Cabras 10mila anime e sono tutte diverse da mia, tutte mi appartengono e io appartengo al loro, anche a quella del disgraziato con cui io giammai prenderei un caffè al bar, i nostri destini sono legati non perché siamo nati nello stesso posto ma perché io ho scelto di vivere in quel posto. Chi ci sceglie per patria è più per appartenere che per rubarci l’identità.

 

Domanda: Restando sul filone semantico, vorrei introdurre una parola evocativa che è il “sangue”, lei utilizza il sangue come se fosse un filo rosso che sono le relazioni che si sviluppano in tutti i suoi romanzi, ed in particolare accosta la famiglia all’idea di ferita che non sembra rimarginarsi. Secondo lei la ferita può invece rimarginarsi?

Michela Murgia: La famiglia è un luogo patogeno. Qualunque famiglia è la famiglia sbagliata, c’è un elemento di casualità nella nascita per sangue che va sanato con la coltura delle relazioni. Essendo stata due figlie diverse, una volta per nascita e una volta per scelta, la differenza mi è molto chiara. Nel senso che il genitore che ti ha messo al mondo anche quando ti ha voluto non sapeva che saresti nato tu. Il massimo che ci dicono oggi le ecografie è il sesso e se c’è qualche patologia in arrivo, ma chi è la persona non lo sappiamo, la nascita è un appuntamento al buio. Spesso si passa la vita a farsi perdonare di non essere proprio chi ci aspettava vicendevolmente. Non soltanto tu non hai scelto di generare me ma io neanche ho scelto di nascere, la mia menomazione di scelta è ancora più profonda. L’incontro tra genitori e figli quindi è sempre uno scontro. A quel punto subentra la genitorialità di scelta e la filiazione di scelta, perché cambiano i rapporti di potere: quando mio padre voleva impedirmi di fare qualcosa (la mia era una famiglia violenta e patriarcale in cui mia madre era la figura di mediazione quindi una figura complice del potere patriarcale benché non ne fosse consapevole) poteva essere di buon umore dandomi le motivazioni della sua negazione, allora io cadevo nella trappola credendo di poter negoziare e ponevo i miei argomenti, quando mio padre iniziava a perdere terreno di fronte alla discussione diceva “comunque non si fa, perché lo dico io che sono tuo padre”. Il sangue e un argomento che chiude tutti gli argomenti. In una famiglia per scelta, come quella che ho sperimentato da 17 anni in poi, questo argomento non può essere posto perché i rapporti di potere sono fondati su altro. Perché la persona che ti ha preso non ti dice “questo non lo fai perché te lo dico io che sono tua madre”, perché lei non è tua madre, tu mi hai preso quando io ero già una persona riconoscibile. È un rapporto tra due soggetti entrambi agenti. Se vi dicessi che la seconda famiglia è meno patogena della prima vi mentirei, perché è proprio il sistema familiare che di per se’ è mafioso. Non a caso la mafia si chiama “la famigghia”. La famiglia appone sulle relazioni una griglia codificata in cui ti vengono chieste cose anche quando non vengono esplicitate, l’educazione serve a fartele comprendere, oltre a farti crescere e migliorare serve a darti la forma giusta perché quella griglia che hai addosso non ti schiacci e non ti faccia desiderare di sovvertirla più di tanto. Alla fine però io stessa per uscire da una gabbia sono entrata in un’altra, sono andata in un’altra famiglia. Mi interessa la ricerca che si è fatta per la ricerca di forme alternative di famiglia, ma su questioni come queste c’è molto conservatorismo. Dietro un ti voglio bene spesso ci sono richieste, ci sono minacce, ci sono offerte, un’esigenza del per sempre.

Domanda: Abbiamo parlato fino ad ora di relazioni verticali, parliamo di relazioni orizzontali come l’amicizia, come si crea un rapporto di potere tra due persone che sono teoricamente sullo stesso piano?

Michela Murgia: L’amicizia nella mia vita ha un peso enorme, il 90% delle energie emotive va a curare i rapporti di amicizia. È chiaro che le relazioni rispettano i rapporti di potere sociali: ad esempio due compagne di università che escono insieme perché si sono simpatiche, ma poiché nella nostra società  la bellezza è valutata come un potere interessante, se una delle due corrisponde allo standard estetico che la può definire bella e l’altra no tra quelle due persone c’è un rapporto di potere in essere che non dipende da loro perché lo subiscono, è uno schema che si appoggia sulla loro amicizia e contro quello schema la loro amicizia deve combattere, se ne è consapevole. Se non ne sono consapevoli, l’una e l’altra, quella cosa agisce e corrode, significa che una sarà meglio accolta dell’altre, significa che se frequenteranno un gruppo di ragazzi e si innamorassero dello stesso una avrà più chances dell’altra. Tutti i dislivelli sociali si riverberano sulle relazioni. Vi sto facendo esempi banali ma ve ne sono di più complessi, penso solo ai gap intellettuali, al gap tecnologico, io mi rendo conto che rispetto alle persone con cui sono cresciuta nel mio paese che le mie esperienze di vita mi hanno messo in mano moltissimi strumenti e quando torno al mio paese non posso uscire con i miei compagni di liceo perché non sappiamo che diamine dirci perché non abbiamo più argomenti in comune. D’altronde loro parlano di cose che io non conosco. L’accesso agli stimoli può essere molto diverso e determina percorsi diversi. Se vi dicono che non esiste più il problema di classe, tendenzialmente non credeteci, tendenzialmente.

Domanda: Parliamo della problematica della donna, di come la donna sia cambiata nella letteratura e di come sia diventata protagonista.

Michela Murgia: I modelli letterari femminili in Italia sono pochissimi. L’Italia è l’unico paese in cui esistono i festival in rosa, i festival di scrittura femminile, per cui ti chiamano e ti dicono che stanno organizzando una rassegna di letteratura femminile, e tu gli chiedi “cosa intende per letteratura femminile?” “ma non nel senso che ci  sono solo donne, ci possono anche essere anche uomini che parlano di temi femminili” “tipo?” …e poi dall’altra parte della cornetta senti il panico. Io vi dico se volete vedere personaggi femminili fatti bene leggete Stephen King, leggete Martin e guardate Game of Thrones in cui non c’è una sola principessa che si veste di rosa. King è in assoluto il più femminista di tutti gli scrittori, ma non perché è femminista, ma perché è giusto, equo, racconta donne vere dal punto di vista femminile, in IT (che rileggo almeno una volta all’anno) c’è la figura di Beverly che è strepitosa. Le donne della mia generazione si vedevano messe in mano ad un certo punto piccole donne, carine no? Ma ce ne è una che si chiama Jo March lì dentro che costruisce la sua indipendenza in un momento storico in cui di certo no si parlava ancora di indipendenza femminile (tanto che poi anche lei finisce per sposarsi) però è già un prodromo di quello che potrebbe essere la donna se non si pensasse automaticamente come madre e sposa. In mezzo a tutto questo c’era un’altra citazione che volevo fare: Marion Zimmer Bradley negli anni 80 ha scritto “Le nebbie di Avalon”, io lo leggo a 18 anni e divento contemporaneamente femminista e anticlericale. “Le nebbie di Avalon” è la riscrittura magistrale del ciclo arturiano dal punto di vista di Morgana e mi ha talmente formato quel libro lì perché è uno di quei libri che ti svelano qualcosa, fino a quel momento guardavo la mia libreria come se fosse normale, da quel momento in poi la guardavo pensando “Dove io donna ci sono in questa libreria?” “In quali di questi libri non sono stata raccontata?” Modelli per immaginarsi la donna agente nella letteratura contemporanea ce ne sono pochissimi a meno che non leggiate il fantastico. È appena uscito il libro di Pullman “Il libro della polvere, ve lo consiglio, un altro fantasy strepitoso. Scusatemi ma il fantasy è il luogo della realtà aumentata ed è il luogo dove finiremo tutti presto o tardi e da dove peraltro siamo partiti, la letteratura italiana parte da un grande capolavoro fantasy che è “La Divina Commedia”.


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