La tragedia della non-vita: intervista a Emanuele Vezzoli.

Scritto da il 26 Giugno 2017

Basato sul romanzo autobiografico di Piergiorgio Welby, Ocean terminal porta sul palco un racconto di vita straziante. Abbiamo intervistato Emanuele Vezzoli, attore, regista e co-sceneggiatore, in occasione del Festival Milano Off 2017.

 

Margherita Maiellaro: La figura di  Piergiorgio Welby è stata fondamentale all’interno della scena giuridica italiana e il suo caso è stata una tempesta mediatica, capace di suscitare molto clamore e dissensi e allo stesso tempo aprirci gli occhi sulla realtà della sofferenza umana e dell’eutanasia.
Per quale ragione ha deciso di portare a teatro un racconto di vita tanto importante?

Emanuele Vezzoli: Piergiorgio aveva scritto questo romanzo e non lo voleva pubblicare, ha chiesto al nipote Francesco Lioce, che ha curato l’uscita del romanzo, di pubblicarlo quando fosse morto. In questo libro Piergiorgio Welby si racconta come uomo privato e uomo politico, quello che conosciamo attraverso i media è quello politico, per me era importante far conoscere Piergiorgio come uomo.
Portando avanti l’adattamento teatrale ci siamo resi conto che era impossibile svincolare questi due lati. L’idea di rappresentarlo è nata dal mio professore universitario , Giorgio Taffon, del DAMS, che mi aveva infatti contattato perchè, secondo la sua opinione, sarebbe stato possibile adattarlo a un racconto di tipo teatrale. L’obiettivo di fondo era quindi quello di far conoscere Piergiorgio e il suo romanzo. Piergiorgio ha voluto combattere la sua battaglia fino alla fine, essendo militante nel partito radicale ed essendo parte integrante dell’associazione Coscioni, aveva l’obiettivo di poter ottenere una legge che regoli il fine vita.

 

 

MM: Per la sceneggiatura del suo spettacolo teatrale, basato sull’omonima biografia di Welby, lei ha collaborato con Francesco Lioce, che a sua volta ha colmato le lacune presenti nella biografia e ne ha curato la ristesura. Questo lavoro a 4 mani èstato essenziale per lei e per il risultato finale dell’opera? Quanto ha influito nella rappresentazione?

EV: La riscrittura scenica ha voluto rispettare il testo di Piergiorgio, senza snaturare la composizione dell’opera. Abbiamo cercato di far compenetrare vari temi, l’uno nell’altro, con l’obiettivo di dare al testo un inizio e una fine. La grande riscrittura è stata poi quella fisica, avvenuta tramite l’aiuto di una mia cara amica e coreografa, Gabriella Borni. Con il suo aiuto sono riuscito a adattare al testo teatrale  al linguaggio scenico, che è empatico e non è fatto solo di parole ma anche di sguardi, emozioni e moti del corpo.

 

 

MM: La vita di Piergiorgio Welby, prima della malattia è stata molto turbolenta.
Gli anni della droga, per come descritti nel libro, sono molto tetri e turbolenti e viene espressamente sottolineato come la droga stessa fosse la via di fuga dalle sue sofferenze. Quale lavoro ha richiesto immedesimarsi in questo tipo di racconto di vita?

EV:  L’ho affrontato molto lentamente, ci ho impiegato quasi un anno e ho trovato un escamotage, infatti entro in scena come Francesco Lioce, nipote di Welby. Lo spettacolo inizia quindi con un dialogo con lo zio, dopo, invece, rappresento Piergiorgio stesso. Questo transfert è avvenuto in modo quasi naturale e quando finisco lo spettacolo ho la sensazione fisica che Piergiorgio sia davanti a me. Io non ho avuto esperienze simili a quelle di Welby, però ritengo che il dolore sia universale, quindi ho cercato di immedesimarmi nella parte pensando a quello. Per quello che riguarda gli anni della droga, in quel caso ho cercato di pensare a cosa lo avesse spinto a quella scelta, sapendo che era venuto a conoscenza della malattia all’inizio della sua adolescenza.  Per lui è stata una parentesi, la vera fuga dalla sofferenza, anzi, l’affrontarla, è arrivata dopo, solo con l’incontro con Mina Welby. Infatti Piergiorgio è riuscito ad andare avanti e, grazie al suo aiuto, è arrivato al suo ultimo istante di vita sapendo di aver vissuto veramente.

 

 

Pierdomenico Laviola: Passiamo, invece, dalla stesura del testo e dalla personalità propria di Piergiorgio Welby ad un’analisi prettamente scenica.
Nel suo spettacolo abbiamo potuto assistere ad un contrasto stridente tra il racconto “di morte”, della morte a cui era condannato il protagonista, e l’energia travolgente che lei ha portato sul palco. In una scena, in particolare, si è avuta quasi l’impressione di assistere ad una crocifissione, come se Piergiorgio Welby diventasse vittima sacrificale, al fine di ricordare a tutta l’umanità quanto preziosa sia la vita e quanto labile sia la soglia che la separa dalla morte.
Nell’ultima fase della sua vita, poi, lo stesso Piergiorgio chiese il diritto di poter disporre liberamente del proprio corpo, quel corpo ormai conteso anche con lo Stato e con la Chiesa.
Questa sera, finalmente, sul palco, lei ha donato a Piergiorgio la possibilità di esprimersi tramite il suo corpo. Come ha interpretato e vissuto tutto ciò?

EV: Innanzitutto l’immagine cristologica nell’opera è sempre presente. La presenza fissa del tavolo in scena, ad esempio, rappresenta al contempo una prigione ed il centro stesso della vita familiare, oggetto attorno a cui ci si riunisce per consumare i vari pasti e che, all’occorrenza, diventa anche letto di morte, con chiaro riferimento al Cristo Morto di Mantegna.
Piergiorgio, in quest’opera, rappresenta un tramite per aiutare quelli che restano (in vita). Lui e la moglie, ad un certo punto, arrivarono al punto di guardarsi negli occhi e di dirsi di aver fatto tutto, ormai. Null’altro rimaneva loro. Quella che rimaneva a Piergiorgio, oramai, era una non vita, e lui non aveva nessuna intenzione di viverla.

 

 

PL: Generalizziamo brevemente sulla condizione in cui versa il mondo del teatro al giorno d’oggi.
Il processo triadico Hegeliano (tesi antitesi e sintesi), non ha tralasciato di prendere in analisi l’ambito artistico.
Infatti, Hegel tratta di forme d’arte che si susseguono e si alternano, rappresentando ognuna l’evoluzione della precedente.
Il teatro è una forma espressiva antichissima, in effetti. È possibile che il cinema ed i nuovi mezzi comunicativi siano destinati sempre più a prenderne il sopravvento? I giovani paiono sentire sempre meno la necessità di fruire di uno spettacolo teatrale…

EV: Il teatro nacque cinquemila anni fa, e da sempre si è detto che fosse in crisi. Dipende anche dal genere teatrale, però. Vi sono spettacoli, come quelli di Ricci/Forte, che fanno registrare spesso “tutto esaurito” tra i giovani. Questi ultimi, probabilmente, vanno in cerca di nuove forme di espressione, basta guardare le “exhibitions” su YouTube.
Piuttosto che lamentarci e dire “Il teatro è finito”, occorrerebbe che aprissimo gli occhi e ci dicessimo “Quel teatro è finito”, rivolgendo, piuttosto, la nostra attenzione alle nuove forme espressive.
Basta vedere il numero di scuole di teatro presenti nelle grandi città Italiane, ci sono tantissimi ragazzi che hanno voglia di fare teatro.
Il teatro, seppure sotto forme diverse, c’è ed è vivo!

 

 

 

 

A cura di

Laviola Pierdomenico

Maiellaro Margherita


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